Una beffa. E’ quello che il provvedimento sullo sblocco dei debiti della PA nei confronti delle aziende rischiava di essere per i Comuni italiani.
Per capire bisogna fare chiarezza: i soldi per pagare questi debiti in realtà ci sono. Ci sono perché in Italia vige il principio contabile della copertura finanziaria al momento della spesa, che si concretizza di volta in volta con un atto chiamato “impegno“. Nel momento in cui viene firmato accade nel bilancio dell’Ente la stessa cosa che accade nei nostri conti correnti quando usiamo le carte di pagamento dei circuiti internazionali. I soldi sul conto vengono “congelati” e rimangono nel saldo di cassa, anche se non sono più disponibili. Ci sono, ma non possono essere spesi per nient’altro.
Il punto è che spesso la somma degli impegni degli enti risulta sbilanciata rispetto alle entrate e alle esigenze di riduzione della spesa, anche perché l’accensione di mutui – che sono lo strumento principale per finanziare gli investimenti – genera contabilmente una sola entrata (la cosiddetta “sorte capitale” che entra dalla Cassa Depositi e Prestiti al Comune) e due uscite: una in conto capitale (l’utilizzo dei soldi per il pagamento dell’opera all’azienda appaltatrice) ed un’altra -pluriennale e corrente- per la restituzione del prestito alla CDP. Questo meccanismo finisce per determinare lo sforamento del famoso patto di stabilità, ovvero quella formula diabolica, unica in Europa, che ogni Ente deve rispettare per dimostrare allo Stato di aver fatto la sua parte nel mantenimento degli obblighi europei.
Il tanto atteso sblocco del pagamento dei debiti nei confronti delle imprese doveva consentire di firmare mandati di pagamento per somme impegnate ma non liquidate, per un totale di 40 miliardi di Euro. Un provvedimento che, nelle intenzioni, doveva dare un po’ di ossigeno alle aziende già gravate dalla crisi, ma anche porre uno stop al tassametro degli interessi di mora che gravano sugli enti debitori. A garanzia del mantenimento degli obiettivi del patto di stabilità, il Governo aveva previsto un aumento delle entrate tributarie. E’ questo meccanismo attuativo, previsto nella bozza di decreto che doveva andare oggi in Consiglio dei Ministri, che ha provocato la levata di scudi dell’Anci, con i sindaci decisi a non passare per esattori, e di Rete Imprese Italia, giustamente preoccupata da un probabile allungarsi dei tempi che, al contrario delle intenzioni, non risolverebbe certo il problema a stretto giro come necessario.
Così, poco prima che la delegazione dei Comuni Italiani varcasse la porta di Palazzo Chigi per incontrare Monti per far valere le proprie rimostranze, i “tecnici” hanno deciso di procrastinare il varo del provvedimento per studiare nuove soluzioni che tenessero conto delle controindicazioni del caso. La delegazione Anci è comunque stata ricevuta dal premier, mentre iniziano a fioccare tweet e dichiarazioni contrarie al rinvio: “I problemi che ci sono nel decreto -scrive Angelo Rughetti, segretario generale ANCI e deputato PD- possono essere risolti in sede di conversione”. In uscita dall’incontro, il presidente Anci Graziano Delrio ha spiegato che il decreto sarà pronto al massimo entro lunedì prossimo, prevedendo lo sblocco da subito di 7 miliardi di euro.